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Giovanni Fava in conversazione con Gregorio Raspa.

   

Giovanni Fava. Foto Andrea Scarfò.

Guardando il tuo lavoro non posso non pensare al concetto di "distruzione creativa" coniato in origine da Joseph Shumpeter. Come nella teoria dell'economista austriaco, anche nei tuoi lavori dal processo di rinnovamento/distruzione di un vecchio apparato - nel tuo caso iconografico e non industriale - nascono nuovi elementi, altri si modificano e, in pochi sopravvivono. Cosa guida un simile fenomeno di selezione ?

 

 

Tutto avviene naturalmente. Di volta in volta accade qualcosa di diverso che, involontariamente, mi attira, mi colpisce. Può essere un frammento, la somma o la sottrazione di un qualcosa, una parte di tutto ciò che non riusciamo a vedere. Adoro trasformare, moltiplicare, indagare l’interno della materia. E’ anche vero che alla fine del mio lavoro non tutto sopravvive, ma dalla distruzione, dalle ceneri, rinasce la vita. Non seguo un iter, ma cerco di riconoscere quello che nasce e  renderlo mio.

 

Il processo di composizione-distruzione-ricomposizione dell'opera, che una volta concluso porta alla creazione di un'immagine inedita - spesso autonoma da quella che l'ha generata - , sia pur in nuce, è ben noto nell'arte nel '900. Penso, ad esempio, agli assemblaggi di oggetti precedentemente sezionati di Arman, alle compressioni di César, ma anche ai décollage di Rotella, alle pitture di Schnabel o ai collage dadaisti. In cosa il tuo gesto si differenzia realmente dagli esempi appena citati ?

 

 Credo che la differenza con gli autori che hai citato si possa riscontrare innanzitutto nel soggetto e, in secondo luogo, nel processo. Arman, ad esempio, nelle sue opere inglobava degli oggetti comuni, io diversamente lavoro su elementi più intimi, come delle vecchie immagini o dei ricordi a cui sono legato. César, invece, comprimendo la materia, cercava di darne una visione totalitaria, di trovare una formula di sintesi della sua essenza. Le mie opere, al contrario, tendono ad aprirsi, a farsi scrutare nell’interno. Nel gesto di Rotella, poi, noto una volontà di sottrazione della materia che, ad esempio, nel mio lavoro manca. Credo invece che il punto comune tra noi sia rinvenibile nella ricerca di un linguaggio di rottura, di un gesto estremo finalizzato alla creazione di una visione inedita.

 

 

Trovo poi una forte similitudine - concettuale e non certo estetica - tra il tuo lavoro e quello di Emilio Isgrò. In fondo, a pensarci bene, proprio come il gesto della cancellatura offre alla parola l'opportunità "di rafforzarsi e di recuperare un'energia che si era andata affievolendo", il tuo atto di distruzione e successiva ricomposizione dell'opera offre all'immagine, nell'epoca della sua riproducibilità tecnica e dalla sua sovra-produzione, opportunità simili. È possibile affermare che la tua pittura rappresenta - anche - un tentativo di redimere l'immagine dalla tirannia della banalizzazione?

 

Il lavoro di Isgrò mi ha colpito sin dalla prima volta in cui l’ho visto, perché con quel suo tentativo di negazione, con quel suo modo di occultare, ha veramente conferito alla parola una nuova veste, una vibrazione in più. Lui ha saputo coltivare con sapienza il dubbio e alimentare con intelligenza la voglia di venire a conoscenza di un messaggio non più leggibile.

Credo che il mio, invece, più che un tentativo di redimere l’immagine dalla banalizzazione - che per certi versi potrebbe rivelarsi un gesto molto pericoloso - sia il tentativo di darle una nuova forma che ne rispecchi l'essenza e ne preservi l’anima.

 

In fondo, seppur dal valore apparentemente nichilista e iconoclasta, il tuo gesto custodisce in sé una componente etica a difesa dell'arte, e non piuttosto una volontà di negazione della stessa. E' realmente così o c'è dell'altro?

 

Tu conosci bene il mio lavoro e ne cogli sempre spunti interessanti. In effetti l’atto della distruzione come gesto estremo non è certamente un atto indolore, ma viene compiuto come gesto d’amore, mirato a rinnovare l’arte e a preservarla. Può apparire un controsenso - e forse lo è - ma l’arte non risponde a dinamiche date e certe.

 

 

 

Eppure il tuo lavoro si pone in una posizione fortemente critica nei confronti del sistema. Lancia quasi un monito, fa luce su una situazione di sclerosi innovativa spesso insabbiata da esigenze di mercato e miopia critica...

 

Credo che le mode appartengano alla moda. Personalmente faccio quello che sento e non mi preoccupo di piacere o di seguire questa o quella corrente. Sono felice che la mia opera porti in sé queste caratteristiche, e sono consapevole della situazione che ci circonda. Il più delle volte la gente fa di tutto per inventarsi qualcosa di originale perdendo di vista la verità.

 

Per quanto detto emerge come, anche dal punto di vista meramente concettuale, il processo di composizione-distruzione-ricomposizione dell'opera sia indiscutibilmente l'elemento caratterizzante nel tuo lavoro. Mi piace però richiamare l'attenzione sul tuo segno pittorico. Lo ritengo, infatti, di fondamentale importanza per la comprensione dei tuoi dipinti.

 

Hai pienamente ragione. Il segno è importante perché lascia una traccia, indica una direzione, offre una possibilità di orientamento e di comprensione dell'accaduto. La rottura non è un modo per distrarre il segno, ma per rafforzarlo, renderlo unico in ogni sua singola parte. Mi piace pensare al segno che si modifica, che si sposta, che vive di momenti. Così facendo, il segno diventa dinamico e ha un qualcosa in più che è dato dall’incontro con una forza, con una volontà.

 

 

Prima non ho utilizzato la parola "dipinto" a caso, ma con estrema consapevolezza. In molti, distratti dalla tridimensionalità delle tue opere, dimenticano che il tuo lavoro è pur sempre pittorico. Tuttavia, so bene che, sin dal principio, hai cercato una soluzione capace di svincolarti dalla bidimensionalità tradizionalmente offerta dalla pittura. In tal senso, la definizione del tuo attuale linguaggio è frutto di un processo di ricerca specifico o, piuttosto, l'ennesimo risultato - non raro in capo artistico - di serendipità?

 

Un po' lo è. Il caso gioca sempre un ruolo fondamentale nel processo creativo. L'artista è consapevole di ciò e cerca di non esserne vittima. La ricerca e la sperimentazione sono la base  di ogni percorso artistico. Durante il tragitto, poi, ci si imbatte nel caso, che a volte mette in difficoltà e destabilizza, altre suggerisce delle possibilità interessanti. L’importante è sfruttare queste chance, riconoscerne per tempo le potenzialità e intuire, sulla base dei propri mezzi, le potenziali modalità d'intervento. Certo, questa è una mia visione, altri daranno al caso un altro valore. Sicuramente, come dici, il tentativo di fuggire dalla bidimensionalità è certamente voluto e deriva dalla necessità di spingermi oltre, di scoprire qualcosa di nuovo. Penso di essere nel giusto se dico che il mio lavoro è il risultato di un mix tra due processi: uno di ricerca consapevole, l'altro di osservazione e comprensione del caso.

 

Nella scelta di creare un simile dialogo tra le tue opere e lo spazio, quanto ti ha influenzato la lunga esperienza nello studio di Cesare Berlingeri?

 

Credo molto. E' stato il mare dove ho imparato a nuotare.

 

A tal proposito, mi racconti del tuo rapporto con Berlingeri? So che tra di voi esiste un profondo sodalizio, umano e professionale, che dura ancora oggi...

 

Sì, abbiamo trascorso molti bei momenti insieme. Ero poco più che maggiorenne quando iniziai a frequentare lo studio del Maestro, inizialmente nei pomeriggi dopo la scuola, in un secondo momento durante gli anni d'Accademia. È stata un'esperienza che mi ha permesso di conoscere e imparare le tecniche pittoriche, l’allestimento di una mostra e tante altre cose che riguardano il mondo dell'arte e non solo. Fondamentali sono state anche le lunghe chiacchierate durante il lavoro o nei momenti di svago, i tanti viaggi insieme, gli alti e bassi di un forte legame. Al rapporto maestro-allievo si è aggiunta poi l’amicizia che - credo - sia il legante più forte. Il nostro è stato un confronto bellissimo di crescita non solo professionale.

 

Parlando della tua formazione, non posso non chiederti del tuo rapporto con il mondo accademico. Per un periodo hai infatti frequentato l'Accademia che, dopo anni di studio, con coraggio - e in aperta polemica - hai abbandonato. Cosa ti ha deluso di quel mondo?

 

L’Accademia è stata comunque un’esperienza utile. Mi ha offerto l'opportunità di mettermi alla prova. Volevo cimentarmi nel disegno, studiare incisione, affrontare la storia dell’arte. Forse in me c’era ancora un’idea romantica dell’Accademia, immaginavo conversazioni nei corridoi, momenti confronti e crescita, poi ho notato che la maggior parte dei miei colleghi era lì perché considerava la possibilità di frequentare quell'ambiente come una soluzione "facile". Sono entrato in quell’edificio come in una cattedrale o in una moschea, poi ho visto il vuoto. Immaginavo l’anatomia di Leonardo - per quanto imprecisa - decisamente più idonea allo studio dell'arte rispetto all’anatomia di un medico, la stessa che ci faceva riprodurre delle tavole d’ambulatorio. Una cosa che adoravo, però, erano le lezioni di Storia dell’Arte. Poi vari trasferimenti falliti, incomprensioni interne e l'interruzione a un passo dalla fine...

 

Tornando alle componenti caratteristiche delle tue opere, vorrei soffermarmi su un altro "momento" importante del tuo lavoro: la scelta dei materiali. In questi anni, per la tua produzione, infatti, ti sei servito dei materiali più disparati. In base a cosa scegli il supporto su cui intervenire?

 

Mi soffermo molto su questa ricerca. Osservo e immagino cosa una particolare materia può diventare, o cosa per me può significare. Inizialmente usavo molti materiali di recupero e altri supporti, come la tavola o la tela, tipici del mondo della pittura. Col tempo, poi, sono entrati a far parte della mia produzione materiali cosiddetti extrapittorici come la plastica, il polistirolo o il catrame. Nel mio lavoro questi elementi vengono trasformati, diventano altro, vengono continuamente coinvolti in un processo quasi alchemico.

Per me, l'incontro con la materia è sempre il frutto di un’estenuante ricerca svolta, soprattutto, nel tentativo di cogliere le potenzialità insite in tutte quelle "cose" che posano sotto i nostri occhi ma, il più delle volte, anche solo per pigrizia o distrazione, ignoriamo.

 

 

Pur mantenendo una costante coerenza segnica e concettuale, da sempre alterni nei tuoi dipinti soggetti figurativi a composizioni astratte. Come scegli i "soggetti" da rappresentare?

 

Dipingo quello che sento e quello che vivo. Spesso la figura diventa astratta e il pensiero astratto, viceversa, diventa figura. Ho spesso l'impressione di vacillare sull’orlo di un precipizio, ma mi piace essere libero, non rientrare necessariamente in uno schema. Oggi l’immagine ha un ruolo diverso da quella di un tempo. Come con la parola, anche con l'immagine tutto dipende dall’uso che ne facciamo. Non cosa, ma come!

 

Altro elemento fondamentale del tuo lavoro è il colore. Scegli sempre accostamenti cromatici contrastanti, sfrutti l'abbinamento di tinte dalla "forza" complementare e utilizzi il  colore in maniera prepotente e vibrante. Eppure, sulla tua tavolozza poggiano pochi colori. Molti, come ad esempio il verde, sono costantemente esclusi. Come mai una simile scelta?

 

Intanto non escludo l’ipotesi di poterli usare in futuro. Credo comunque che su questo aspetto più che in altri, molto abbia influito la mia scuola. In ogni caso, penso spesso alle motivazioni che risiedono dietro alla scelta di un colore, ma credo che sia un fatto troppo personale per essere esplicitato. L’emozione che mi dona il colore puro è irripetibile. A volte penso sia lui a scegliermi. Rimasi sconvolto, una volta, leggendo L’Arte del Colore di Johannes Hitten.  In un certo punto del  libro sono riportati alcuni esempi di "personalità cromatiche". Tra gli esempi, Hitten cita le preferenze di una sua allieva con capelli rosso ruggine che aveva nei suoi accordi soggettivi il giallo, il rosso e il blu. In realtà credo che la predilezione per un colore sia una questione fin troppo intima e sicuramente lontana da regole. Magari è semplicemente una questione di spirito...

 

Nell'ultimo periodo hai spostato la tua attenzione sulla parola realizzando delle opere a partire da testi frantumati e poi ricomposti sulla tela. Mi parli di questi ultimi lavori?   

 

In quest'ultima serie - da me intitolata “Pozzo dei pensieri” - si possono leggere frammenti di riflessioni, sensazioni o semplici sentimenti che si intrecciano tra di loro suggerendo la trama di un pensiero visibile ma non leggibile.

A volte starei ore ad osservare le strisce di carta che compongono l'opera; sembrano muoversi, come se fossero vive. Questi lavori sono come dei contenitori di momenti, di attimi unici e irripetibili.

 

 

 

Arrivati a questo punto, ti pongo una domanda che forse avrei dovuto farti prima ma che, volutamente, ho riservato per la fine, e con la quale mi piace concludere il nostro dialogo: cosa significa per te la parola "arte"?

 

 Un’emozione o, a quanto pare, qualcosa di indefinibile.

 

 

 Dicembre 2013

 

Particolare di Pozzo dei Pensieri.

 

 

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